Il Nobel per la letteratura 2020

A inizio di questo mese è stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura alla saggista, poetessa e accademica statunitense all’università di Yale, Louise Gluck, “per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale”. Louise Gluck, nata a New York il 22 aprile del 1943 da una famiglia ebraica e cresciuta a Long Island, abbandonò gli studi superiori e il college perché affetta da anoressia, che curò con l’analisi. Seguì poi un corso di poesia al Sarah Lawrence College e dal 1963 al 1965 si iscrisse ad alcuni seminari di poesia alla School of General Education della Columbia University. La poetessa offre al lettore molti componimenti e raccolte poetiche che segnano in qualche modo il percorso biografico dell’autrice stessa. Attraverso un’attenzione peculiare verso la scelta delle parole e del linguaggio, attribuisce ai suoi versi un tono austero, quasi punitivo a tratti, e con esso riesce a trasmettere un deciso input riflessivo al lettore su varie tematiche fondamentali come quelle della morte, del rifiuto e del fallimento, poste in un sottofondo e in un’ambientazione in parte ossimorica, ovvero quella della natura, del giardino di casa o del villaggio. 

Nelle sue opere si possono ritrovare diversi paradigmi classici, mitologici e inerenti a leggende antiche, conoscenze impartite dalla madre Beatrice durante la sua infanzia e che costituiscono la sua prima formazione. Qui di seguito alcune poesie estrapolate dalla sua produzione poetica.

Dalla raccolta Descending Figure, del 1980:

The Drowned Children

You see, they have no judgment.
So it is natural that they should drown,
first the ice taking them in
and then, all winter, their wool scarves
floating behind them as they sink
until at last they are quiet.
And the pond lifts them in its manifold dark arms.

But death must come to them differently,
so close to the beginning.
As though they had always been
blind and weightless. Therefore
the rest is dreamed, the lamp,
the good white cloth that covered the table,
their bodies.
 
And yet they hear the names they used
like lures slipping over the pond:
What are you waiting for
come home, come home, lost
in the waters, blue and permanent.
 
I bambini annegati

Lo vedi, non hanno giudizio.
Per forza poi annegano,
prima il ghiaccio che li porta sotto
e poi, per tutto l’inverno, le sciarpe di lana
che gli ondeggiano dietro mentre affondano
finché infine se ne stanno quieti.
E lo stagno li solleva nelle sue molte, nere braccia.
 
Ma la morte gli arriva in un altro modo,
molto prossima al principio.
Come se fossero sempre stati
ciechi e senza peso. Perciò
il resto è sognato, la lampada,
la tela bianca, quella buona, che copriva il tavolo,
i loro corpi.
 
Eppure sentono i nomi che si usavano
come richiami scivolanti sullo stagno:
che cosa aspettate,
tornate a casa, tornate a casa, perduti
nelle acque, azzurre e permanenti.

(Traduzione di Alessandro Carrera, su Doppio Zero)

E un’ultima poesia tratta dalla raccolta più recentemente composta, A Village Life (2009)che “la critica considera sperimentale di nuovi modi espressivi: i versi si allungano sulla pagina e la narrazione assume i caratteri del romanzo, mentre ricostruisce la vita di un villaggio mediterraneo, forse in Italia” (il manifesto, Louise Gluck, meditazioni metafisiche su sfondi ordinari di Antonella Francini,2020):

Crocevia

Corpo mio, ora che non viaggeremo più molto a lungo insieme
comincio a provare una nuova tenerezza verso di te, molto cruda e inconsueta,
come i ricordi che ho dell’amore quand’ero giovane –

l’amore che era così spesso sciocco nei suoi intenti
ma mai nelle sue scelte, nelle sue intensità.
Troppo chiedere in anticipo, troppo che non poteva essere promesso –

La mia anima è stata così paurosa, così violenta:
perdona la sua brutalità.
Come fosse quell’anima, la mia mano si muove cauta sopra di te,

non volendo recare offesa
ma impaziente, finalmente, di raggiungere l’espressione come sostanza:

non è la terra che mi mancherà,
sei tu che mi mancherai.

(Traduzione di Francesca Spinelli)